Gli oppositori della Brexit sottolineano, molto ragionevolmente, che chi ha votato a favore della Brexit, non ha votato per essere più povero. Agli elettori fu promesso che lasciare l'UE avrebbe scatenato una fortuna finanziaria che avrebbe potuto arricchire le casse del Servizio Sanitario nazionale a un ritmo di 350 milioni di sterline alla settimana (o più); che il Regno Unito aveva “le carte migliori”; che lasciare l'UE non significava lasciare il mercato unico e che le nazioni avrebbero bussato alla porta del Regno Unito per negoziare accordi di libero scambio tipo “jumbo”: infatti si pensava che l'intesa verso un accordo globale di libero scambio con l'UE fosse “la cosa più semplice della storia”. Ahimè, la realtà si è rivelata non altrettanto rosea.
Le case finanziarie trovano il Regno Unito una base attraente per le loro imprese, non ultimo perché significa che possono commerciare liberamente in tutta l'UE, proprio come se avessero una presenza fisica nel paese partner. Questa struttura è nota come “passporting” e terminerà nel momento in cui il Regno Unito lascerà l'UE. Di conseguenza, se queste aziende desiderano continuare le loro attività di “passporting”, saranno costrette a costituire una presenza sufficientemente ampia in uno dei restanti stati dell'UE dei 27. Inevitabilmente ciò causerà perdite di posti di lavoro e flussi di capitali dal Regno Unito.
La Banca d'Inghilterra prevede che entro la data della Brexit (il 29/3/19) verranno persi circa 5000 posti di lavoro nel settore finanziario del Regno Unito, una cifra non contestata dal governo. Il ministro per la City (nucleo finanziario di Londra), Jon Glen, ha detto a un comitato dei Lord: “Non abbiamo visto movimenti globali di grandi istituzioni verso altre città nell'Europa continentale.Il mio unico obiettivo nei confronti della City è quello di garantire il più possibile la continuazione nel rispetto del valore economico che può essere generato dalla City”. Ha ammesso che l'entità delle perdite di posti di lavoro dipenderà dall'accordo che il Regno Unito raggiungerà con l'UE, e che questo peggiorerà in uno scenario “senza accordo”. Ciò potrebbe non essere vero dal momento che il piano di Checkers del PM, che la May insiste sia l'unica soluzione praticabile per la Brexit, non copre l'industria dei servizi del Regno Unito (compreso il settore finanziario). Glen ha inoltre ammesso che il Tesoro non ha calcolato la perdita fiscale da servizi finanziari che trasferiranno parte (o tutte) delle loro attività al di fuori del Regno Unito.
“Sarebbe praticamente impossibile, caricati di così tante supposizioni, fare dei calcoli significativi rispetto a quale sarà la risposta dei diversi settori, perché ci sono così tanti problemi correnti rispetto all'accordo e alla certezza normativa, che cercheremmo di perseguire l’accordo”, ha detto.
Secondo il ministro, il governo sta cercando di ottenere un accordo bilaterale con l'UE sull'equivalenza normativa. In quanto membro del mercato unico, il Regno Unito è già allineato ai regolamenti dell'UE, pertanto l'accordo dovrebbe coprire dei casi in cui le due parti dovessero divergere in futuro. Il settore finanziario del Regno Unito contribuisce annualmente al Tesoro con 70 miliardi di sterline.
Glen ha detto al comitato che: “Non possiamo essere soggetti a una situazione in cui vi è politicizzazione dell'equivalenza e dove le nostre istituzioni finanziarie potrebbero essere vulnerabili: abbiamo bisogno di un risultato che soddisfi la City”.
Naturalmente, è fuori dal suo mandato dire cosa succederà se non si riesce ad ottenere un risultato del genere.